Biografia

Una pioggerella minutissima cadeva lenta e tediosa, un giovane di media statura, vestito dimessamente con indosso un cappotto verde militare attraversava piazza dei Cinquecento da piazza Risorgimento, con le mani sprofondate nelle tasche immerso in chissà quali tristi pensieri”, solo il volto emanava la storia d'un importante futuro. Era il 1922 e Antonio percorreva a piedi quella strada, per tornare a casa due volte al giorno da quasi un mese, dal giorno in cui era entrato senza nessun compenso nella compagnia di Umberto Capece al teatro Salone Elena.

La legge della compensazione orchestra le vicende degli uomini, così la vita di Totò, un attore comico sempre felice sulle scene viveva una vita di duri sacrifici.

Erano le 7:00 del mattino del 15 febbraio 1898, al secondo piano del rione Stella (oggi Sanità) in un palazzo di antica nobiltà, che era appartenuto fino al '600 al barone Stanislao Campagna, in un freddo e spoglio appartamento nasceva Antonio de Curtis.

Era un delizioso bambino con una folta testa di riccioli biondi. “Le amiche di mamma andavano tutte pazze per me” avrà a raccontare lui stesso.

Era un dedalo di vie triste e chiassoso, il rifugio sicuro dei ladruncoli e dei mariuoli, di proletari che vivevano delle briciole che cadevano dalle pantagrueliche vite dei nobili dell'epoca, mentre l'urbanesimo incalzava nella periferia della città.

Potremmo sovrapporre strati intellettualistici ed interpretazioni meta semantiche a non finire, ma la verità è che Totò è questo: un fatto naturale. Una maschera comica con un mondo di sofferenza dentro, il suo recitare è catarsi ed a braccetto di sua Altezza Imperiale andrà sempre “o femminiello” dei vicoli del rione a ricordargli la fame, la miseria e di essere grato per tutto, di non diventare mai per nessuno un caporale. Napoli è la misteriosa forza che scrive in lui la sua natura e trasforma il carbonio Antonio in secrezione diamantifera Totò. L'atto ufficiale riporta lapidario: “Figlio di Anna Clemente di anni diciotto, casalinga domiciliata a Napoli e di uomo celibe non parente né affine”.

Nell'accingersi all'ardua impresa di raccontare di Totò ci si trova subito davanti ad una sorta di bifrontismo spirituale, di assimoni caratteriali, ma anche di compendio degli antipodi. Sul palcoscenico era una maschera sfrenata e farsesca, travolgente e divertentissima, che ti contagiava subitaneamente ed agiva in totale libertà dagli schemi sociali e dal copione, nella vita invece un nobile di antichissima radice, serio e composto, tipico esponente della nobiltà napoletana. In vita Totò fece poche deroghe all'intenzione di non voler scrivere di se stesso, convinto com'era di essere già sovresposto alle folle attraverso il lavoro sulle scene. Ogni sua storia ce l'aveva scritta sul volto da Cristo dolente, nell'abito di scena sempre più logoro. Una bombetta ed una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni troppo corti e dei calzini colorati: così nasce Totò. Anna Clemente era molto bella, da tutti chiamata Nannina ed aveva 17 anni quando, orfana di padre rimase incinta. Nella modestissima casa dove nacque Totò vivevano già in cinque: lei, la madre Teresa e quattro fratelli. La sua gravidanza era il frutto di una relazione illegittima con un nobile decaduto e spiantatissimo rampollo di antica casata: Giuseppe de Curtis che pur amando la donna obbedì alle regole del tempo. L'arcigno marchese Luigi de Curtis aveva tassativamente proibito a suo figlio di contrarre matrimonio con una popolana. Anna con la sfrontatezza che si competeva alla sua giovane età non fece mistero del suo legame né della sua gravidanza mentre dal canto suo il marchese obbediva all'irascibile padre cercando di mantenere segreta la relazione.

Sarà uno dei primissimi ricordi di Antonio l'odore della cipria di cui Nannina si cospargeva il volto prima di salutarlo ed uscire per recarsi dal suo amato e sarà in uno di quei saluti che con fare benevolo lo soprannominerà Totò.

Antonio crebbe per lo più con Teresa madre di Nannina, una siciliana corpulenta che regnava come una vera mater familias della Campania Felix nel tugurio del Rione Stella occupandosi dei quattro figli e di quel nipotino giunto senza un padre ed a cui dispensava attenzioni e tenerezze. Non un regalo per Natale o per il compleanno, ma solo freddo, fame e miseria scaldate però dall'amorevole dolcezza della nonna trascorrerà l'infanzia del piccolo Antonio che porterà sempre con sé per mano quel misero scugnizzo che da grande vizierà accontentandolo in ogni capriccio, come in una sorta di restituzione di ciò che natali davvero non troppo felici gli avevano sottratto. Sarà proprio il ricordo delle sue radici e gli stenti patiti che lo conservano sempre disponibile ad aiutare soprattutto i più giovani, facendo di lui non solo un grande artista, ma una persona d'incredibile generosità, come solo chi ha vissuto davvero, la fame, la miseria, si è fatto da solo e non usa falsi pudori sa essere ed imprimendo in lui un fondo di mestizia e rassegnata malinconia.

Gli abiti che Totò indossava per andare a giocare per i vicoli del rione venivano ricavati da scampoli di stoffa di vecchi vestiti della madre ed avevano tinte vivaci e fantasie decisamente femminili. Un paio di pantaloni con delle grandi rose rosse gli valsero il titolo canzonatorio di “femminiello” Totò non ci sta, si ribella, si strappa di dosso gli abiti, resta in mutande ed improvvisa una scenetta con delle mosse tanto curiose a dileggio dei fastidiosi che questi ammutoliscono prima, ed esplodono in fragorose risate poi, ed al fine della sua esibizione lo applaudono mentre lui con una camminata dinoccolata e disarticolata, che anticipa il futuro, si allontana riscattato.

Nel 1904 Totò compiva sei anni e veniva iscritto a scuola, era uno scugnizzo svogliato dalla pagella disastrata.

Passava le giornate in casa a giocare da solo con una mantellina bianca ad officiare finte messe che però lo ponevano già al centro di un ideale palcoscenico ed in un'interpretazione in cui, come ogni officiante è un one man show. Amava sperimentare i vicoli dove poteva incontrare ogni genere di umanità e studiare ed assimilare peculiarità e stranezze dai passanti che lo colpiscono.

La scuola era per lui una detenzione e già in quarta veniva retrocesso in terza, solo grazie all'energia della madre riuscirà a finire tutti e sei gli anni delle elementari ed a conquistare così un attestato che per i tempi era comunque un titolo di studio e nonostante la rassegnazione materna, il padre decide d'iscriverlo alle ginnasiali al Collegio Cimino in via San Giovanni a Carbonara, dove studiavano i figli dei poveri. L'esperienza scolastica di Totò finisce qui. È chiaro dalle prime settimane che all'asettica aria delle aule gli si confà molto di più quella dei vicoli dove può studiare la vita. Come accade oggi, così succedeva allora ed i genitori decidono di mandarlo a lavorare: passa da garzone ad imbianchino, ma dipingere le case dei ricchi lo avvilisce e porta con sé sempre pigrizia e disinteresse, rifiuta le mance che gli vengono offerte ed appena può fugge con qualche amico all'osteria di Don Aniello alla Stella, bighellonando con gli scugnizzi e facendosi beffe di qualche mal capitato che imita alla perfezione. Le sue giornate trascorrevano senza un reale scopo, non va più a scuola ed il lavoro è puntualmente disatteso e ricusato. Totò sentiva di avere qualcosa da esprimere a modo suo, da raccontare, ed assistendo alla rappresentazione di numeri di varietà nei teatrini napoletani sente risvegliarsi in sé l'istinto che darà forma alla sua intera esistenza.

Il 24 maggio 1915 l'Italia entrò in guerra ed Antonio immaginò un ideale riscatto, una via di fuga dall'ambiente familiare, una forma di compensazione per gli insuccessi già riscossi e si arruola. Veniva assegnato al XX reggimento di stanza a Pavia. Ci volle poco perché si rendesse conto che svegliarsi prima dell'alba, le marce, la ferrea disciplina non fanno per lui, comincia così a simulare malesseri di ogni tipo: mal di pancia, mal di testa, vertigini, ma invece di metterlo al riparo da peggiori fatiche, questo comportamento suppliva l'effetto contrario, irritava i superiori e dopo poche settimane veniva destinato al 182° battaglione di fanteria pronto a partire per la Francia con un reparto di soldati marocchini, gli parve ciò che era: una punizione. Lo misero in allarme, come se non bastasse l'avvicinamento al fronte, il circolare di certe voci circa i costumi sessuali dei soldati marocchini. Si determinò in lui un'unica soluzione: non giungere mai a destinazione. La sosta che il treno, che lo portava in Francia, faceva ad Alessandria era l'occasione per mettere in atto il suo piano, doveva funzionare, non avrebbe avuto altre occasioni di fuga. Si gettò a terra ed iniziò a digrignare i denti, si contorse in mille modi, strabuzzò gli occhi, finché non venne creduto e fu trasferito prima in infermeria e poi all'ospedale militare dove dovette sottostare ad alcuni iniezioni a cui si piegò docilmente pur di ascoltare lo sferragliare svelto del treno che ripartiva verso la Francia senza di lui lasciandolo al sicuro nel suo letto anche se ancora rintronato dai sedativi. Il ministero della guerra però non era ancora disposto a lasciarlo libero e non appena si fu rimesso in forze venne trasferito all'88°reggimento di stanza a Livorno, dove finalmente si concludeva la sua avventura, la prima dettata da un'avventata decisione. Nella caserma di Livorno Totò trascorse l'ultima parte della sua vita da militare mentre la guerra volgeva al termine. E' uno di quei rigidi militari di carriera che tanto gioiscono nel rendere la vita più difficile dei poveri soldati vessandoli con ogni forma di umiliazione, per un non nulla scattavano punizioni: pulizia di gabinetti, mondatura di patate, offese verbali...Una sera su un tavolaccio Totò teneva banco facendo il verso al suddetto e la vendetta sfociò nella geniale esclamazione: “Siamo uomini o caporali?!”, fu uno scroscio di risa e di applausi dei suoi commilitoni che dovevano essersi sentiti liberati almeno per un momento dalla loro condizione e vendicati da chi fa della propria posizione l'unico merito da usare a discapito di tutti, non un vero uomo appunto, ma un tronfio prepotente, un caporale appunto.

Fu quell'entusiasmo, che sentiva d'aver suscitato nonché la sua marziana fisicità a spintonarlo alla carriera artistica mostrandogli che l'esasperazione dei particolari, le sue movenze disarticolate, la capacità di sovvertire l'ordine sociale con l'uso delle parole e deridere i potenti gli procurava un pubblico grato ed appassionato.

All'inizio degli anni venti il marchese Giuseppe de Curtis, riconobbe il figlio e decise di regolarizzare l'unione sposandone la madre, riunendo la famiglia.

Era il 1922 tutta la famiglia si trasferì a Roma, fu come una commedia di Scarpetta, c'era il gatto, il canarino, la nonna di 120 kg ed il nonno piccolo e schivo.

Antonio trovò impiego presso il modestissimo Teatro Salone Elena nella compagnia di Umberto Capece. Viene assunto, come si usava con i novizi, con l'accordo che non avrebbe ricevuto compenso giacché gli si dà l'occasione d'imparare il mestiere e deve ritenersi fortunato ad avere qualcuno che voglia prenderlo con sé. Antonio con il bavero del cappotto alzato e le mani sprofondate nelle tasche due volte al giorno attraversava mezza Roma a piedi per recarsi a teatro. La recita consisteva in una farsa con Pulcinella protagonista. Capece era uno degli ultimi epigoni della commedia dell'arte e così si limitava a spiegare alla compagnia un canovaccio a cui attenersi dieci minuti prima dello spettacolo e poi si andava in scena. In breve la compagnia imparava un repertorio di battute, di scherzi, ed invettive da adattare di volta in volta alla necessità del caso. Non sapremo mai se sarà un'innata attitudine o se l'imprinting di questo periodo abbia educato la didattica scenica di Totò, ma sarà per sempre sua abitudine stravolgere, riadattare elaborare non solo ogni copione, ma ogni rappresentazione che lo vedrà partecipe.

Antonio prendeva parte alle rappresentazioni ormai da un mese e la gente già cominciava a riconoscerlo ed apprezzarlo. Era un mese che lavorava senza paga nella speranza che Capece lo scritturasse in pianta stabile. Quel giorno pioveva a dirotto ed Antonio non aveva proprio voglia di tornare ancora a casa a piedi, prese partito e chiese a Don Capece i soldi per il biglietto del tram. La gente si divertiva alle sue smorfie e lui aveva acquistato un piccolo pubblico a forza di km percorsi, ma l'impresario per tutta risposta gli negò il dovuto e lo licenziò, ebbe giusto il tempo di raccogliere i pochi oggetti di sua proprietà in un foglio di giornale legato con una cordicella e di veder salire prontamente sul palco un altro a prendere il suo posto. La pioggia era cessata quando Antonio uscì per l'ultima volta dal Salone Elena, ma il freddo pungeva il volto e la strada del ritorno lunga, solo l'odore delle castagne arrostite accompagnava il suo cammino. Un fuoco debole e controllato cuoceva gustosi frutti ed una vecchina rattrappita dall'artrite attendeva alla loro cura. Il giovane sconsolato si avvicinò al braciere per riscaldarsi un poco senza uno spicciolo neppure per comprare uno di quei frutti. Era nato con il cielo voltato di spalle Antonio, ma ogni tanto qualche barlume giungeva ad indicargli che la strada che aveva intrapresa era quella giusta ed il suo destino quello di uscire dall'afflizione in cui si trovava. La vecchina riconobbe nel giovane squattrinato l'attore che tanto la faceva ridere dai legni del Salone Elena e tramutato in sorriso il vecchio volto rugoso, regalò qualche caldarrosta ad un incredulo Totò. Il mestiere del teatrante è agli antipodi dell'impiegato statale, l'uno sa che finché non avrà raggiunto il limitare della pensione, avrà sempre un incarico ed il ventisette di ogni mese uno stipendio. L'attore quando crede di essere arrivato all'ascesa del successo invece magari perde il favore del pubblico ed inizia a scivolare un gradino più in basso. Antonio dopo la compagnia Capece tentò di lavorare al Teatro Diocleziano dal quale fu velocemente allontanato perché metteva in ombra un altro comico. Capì che non gli permetteranno mai di emergere nei complessi comici e nemmeno di lottare con lealtà ad armi pari, deve passare al varietà per prodursi in spettacoli da solo. Seguirono tempi duri in cui solo il sogno convinto di voler diventare attore gli permisero di tirare la cinghia, stringere i denti e resistere ai morsi della fame, allo scoramento di dipendere dai genitori ed ai continui rifiuti che annichilivano i suoi convincimenti, era solo e senza lavoro. La situazione richiedeva una sterzata e con coraggio a due mani decise di presentarsi ad uno degli impresari più temuti ed esigenti del tempo: Don Peppe Jovinelli. Nel suo teatro avevano trovato successo: Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, Armando Gill, e molti altri. Antonio decise di proporsi senza elemosinare, sfoggiando un'impavida quanto recitata sicurezza, e mentre ancora il bavero della camicia gli tremava mise in scena davanti all'impresario un'imitazione di Gustavo De Marco che lo convinse ad assumerlo. Dopo una settimana in tutta si Roma si parlava già dell'omino elastico che strabuzzava gli occhi e si arrampicava sul velluto del sipario per avvincere un pubblico che lo ripagava con fragorose acclamazioni e richieste di bis.

Era il 1928 e ad euforizzarlo in questo periodo oltre al tanto agognato iniziale successo giungeva il riconoscimento del padre che lo rendeva a tutti gli effetti, civili e legali, marchese. Finalmente non doveva più nascondersi dietro nomi d'arte o pseudonimi per nascondere i suoi illeciti natali. Morto l'arcigno nonno marchese Luigi de Curtis che aveva perentoriamente proibito al figlio di sposare una umile popolana, Giovanni decise di regolarizzare con regolari sponsali il rapporto d'affetto che in fondo da sempre lo legava ad Anna, madre di Totò. Della nobiltà aveva il pallino e si era intestardito in tutti i modi e finalmente ci era riuscito, ma ancora non era soddisfatto. Il desiderio probabilmente di trasmettere i titoli nobiliari ai figli che avrebbe avuto, lo convinse a chiedere al principe Caracciolo, che assiduamente seguiva i suoi spettacoli ed era quasi ridotto in miseria di farsi adottare, ma con sdegno il principe rifiutò la proposta. Non bastò l'ennesimo rifiuto per demotivare Antonio che ormai conosceva bene le soddisfazioni ottenute perseguendo con caparbietà i propri convincimenti. Propose ed ottenne di essere adottato da un altro nobile napoletano di antico lignaggio anch' esso caduto in miseria in cambio di un vitalizio, il vecchio marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri, che lo riconobbe quando lui aveva già compiuto il trentacinquesimo anno di età. Totò che fino ai trent'anni non aveva avuto un padre ora ne aveva addirittura due, entrambi nobili e poteva fregiarsi del titolo di Principe di Bisanzio diventando: Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtisdi Bisanzio, Altezza Imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. La sua vita stava cambiando come se qualcuno avesse dato un colpo di mano al caleidoscopio della sua esistenza rimescolandone forme e colori. In via Frattina era la sede di un barbiere frequentato da quasi quarant'anni da artisti di ogni genere, il proprietario Pasqualino ne era l'anima. Ogni sera dopo la chiusura ed essersi messo a lucido si recava al teatro Umberto poco distante dalla sua bottega in via della Mercede, dismetteva i panni del barbiere per indossare il sembiante e l'allure del borghese del tempo. Era un giorno afoso dell'estate romana quando un cantante melodista napoletano affacciandosi all'uscio della sua bottega introdusse un collega che dopo poco si sedeva per essere sbarbato, senza nemmeno togliersi il cappotto. Si trattava del comico che riscuoteva in quel tempo gran successo recitando allo Jovinelli. Non servì a nulla il caldo, né le ingiunzioni del barbiere che si lamentava adducendo come causa che i capelli sarebbero finiti nel bavero e gli avrebbero dato fastidio a convincere il giovane napoletano a togliere il paltò. Dopo un anno di barba e capelli Totò e Pasqualino erano diventati buoni amici ed era abitudine chiudere bottega ed andare a sedersi in platea per godere delle macchiette ormai divenute famose dell'amico. Il segreto del cappotto però rimase tale fino a conclusione del contratto con Don Peppe Jovinelli, a quel punto Totò fece un baratto con un amico e scambiò il cappotto con un vestito un po' stretto, ma con nessuna parte mancate e si sentì in condizione di raccontare all'amico le sue ragioni, erano passati i tempi in cui “unne se poteva nemmeno levare il cappotto per i pantaloni sfondi” e tra una chiacchiera e l'altra a erano giunti davanti al teatro Sala Umberto, era il sogno di ogni attore poter recitare lì. I due riuscirono ad entrare grazie alle conoscenze di Pasqualino che settimanalmente faceva i capelli ai gestori di quel teatro. Pasqualino nutriva una sincera stima nelle capacità di Totò ed aveva preso partito che andasse aiutato affinché gli si presentasse l'occasione giusta e tutti potessero apprezzarlo e riconoscergli i suoi meriti: decise così che avrebbe parlato con chi di dovere. Fu così che mentre le forbici tagliavano i baffi e l'indice tendeva il naso per migliorare i gesti della rasatura Pasqualino raccontò del deliquio in cui il pubblico finiva davanti alle contorsioni di Totò, degli applausi scroscianti che gli erano tributati e soprattutto del “tutto esaurito” che scritturare Totò avrebbe assicurato al teatro di turno. Tanto disse e tanto fece che pur di zittirlo il Cavalier Cataldi decise di accontentarlo. Entrare al Sala Umberto sanciva la svolta tanto agognata, la fine del primo tempo della vita, fatta di fame, freddo, stento e delusioni e l'avvento finalmente della dolce carezza dell'affetto del pubblico. Quando il macchinista chiamò i 5 minuti per l'entrata in scena di Totò, Pasqualino era all'orlo della commossa soddisfazione e corse a sedersi in platea a godersi il suono del pubblico in delirio per quel marziano napoletano e uomo dei sogni che disarticolava il corpo e con la fantasia faceva del linguaggio espressione nuova e sempre buffa. L'acclamazione dei bis ed il pubblico in visibilio, fu l'assicurazione degli anni a venire di Totò. Volò veloce di bocca in bocca il racconto delle macchiette e degli spettacoli di questo nuovo artista, si diffuse in Italia la sua fame ed in lui una certa consapevolezza che ormai il suo successo poteva solo crescere di giorno in giorno.

Per tutta la sua vita Totò però memore della miseria patita non potrà mai scordare la latente paura di tornare indietro e per un capriccio del pubblico trovarsi di nuovo nei meandri della solitudine e degli stenti, sarà questa la causa che lo porterà, per sua stessa ammissione a girare film mediocri, non potendosi permettere emotivamente il lusso di rifiutare proposte e rimanere inattivo dopo quanto patito in gioventù.

Eugenio Aulicino era un uomo con il bernoccolo degli affari e ricopriva un ruolo d'importanza primaria nella vita del teatro di Napoli dell'epoca. Era lungimirante e sapeva vedere da seduto molto più di quanto suoi contemporanei avrebbero mai visto da in cima ad una scala. Gestiva il teatro Nuovo di Napoli e continuamente studiava come aumentare le azioni del teatro che dirigeva. Era il 1928 ed aveva deciso di alternare le commedie comiche tratte dal repertorio di Eduardo Scarpetta a spettacoli musicali, aveva pensato di svecchiare la compagnia consolidata che offriva spettacoli perfetti, ma sempre troppo uguali a sé stessi, decise d'inserire proprio Totò, il repertorio sarebbe rimasto lo stesso, ma con un nuovo attore e spettacoli musicali. A La Spezia intanto andava in scena la compagnia di Achille Maresca con cui stava lavorando Totò e la cui fama era giunta proprio fino ad Aulicino che rivolgendosi ad un suo collaboratore Don Vicienzo gli intimò: “Viciè va a La Spezia e scrittura Totò, chist'anno voglio fà cos'e pazze!”. Il passo dal varietà alla rivista è breve. Era il 1929 e le cose al teatro Nuovo andavano tutt'altro che male, anzi il Nuovo, era l'Iperuranio, di ogni attore, poter recitare lì assicurava pane, gloria e piccioli. A Totò venne proposta una scrittura per tre spettacoli musicali: Messalina, I tre Moschettieri e Bacco Tabacco e Venere, saranno in realtà molti di più. Totò non se lo lasciò ripetere due volte e consapevole dell'occasione che si proponeva firma con Aulicino un contratto di trecento lire: per l'epoca un compenso astronomico. Con l'arrivo di Totò si concretizzò per il Nuovo un successo senza precedenti, i palchi, i loggioni, erano prenotati con settimane di anticipo e l'impresario era esultante. Giunse al Nuovo una di quelle sere piene di clamore, il 13 dicembre 1929, Eugenia Castagnola a tutti nota come Liliana. Era costume di Antonio scegliere da dietro il proscenio una dama per cui recitare, come facevano gli eroi dei tornei medievali, così lui decideva di sera in sera per quali occhi avrebbe recitato. Era una chioma di capelli corvini che coprivano una cicatrice d'un colpo d'arma da fuoco che un amante le aveva sferrato prima di suicidarsi pur di non perderla, su un copro algido e perfetto Liliana Castagnola. Era una di quelle donne che portavano nella vita il gusto della tragedia ed il senso di continuità con le opere che interpretavano. Era giunta fino al Nuovo proprio per vedere Totò, che se ne innamorò al primo sguardo, ne nacque una storia appassionata. Amore, morte e spettacolo sono la scenografia che fa da sfondo al legame tra Totò e questa incantevole femme fatale.

Totò la raggiungeva tutte le sere dopo lo spettacolo nella pensione per artisti dove alloggiava con l'afflato che caratterizza le conquiste sentimentali ai primi approcci. Liliana nutriva per Totò un vero amore” guai se mi mancassi”, “un tuo bacio è tutto” era solita scrivergli nei messaggi che mandava al suo Totò dal portaborse del teatro. Fu proprio mentre la loro storia diventava di pubblico dominio ed i vincoli della relazione più stretti che si rese conto che nel momento della sua affermazione artistica un rapporto così stretto avrebbe limitato la sua libertà d'azione. Dopo la passione del sentimento, dopo le gelosie reciproche, dopo le scenate di disperazione di Liliana che sentiva Totò scivolargli tra le dita lui le comunicò che sarebbe partito per una tournée da solo. Liliana lo supplicò di portarla con sé, di concedergli di seguirlo e permetterle di lavorare alle sue direttive, ma più dell'amore poté la paura e la gelosia. Gestire Liliana diventava sempre più difficile, lo tempestava di telefonate per tenerlo vicino, inoltre la donna aveva avuto un considerevole numero di amanti e per un uomo geloso come Totò questo lo turbava non poco.

La notte tra il 3 ed il 4 marzo 1930 una macchina percorse per diverse ore i vicoli di Napoli con Liliana a bordo al limitare della disperazione ed un Antonio dilaniato tra l'asciugarle le lacrime e la consapevolezza di doversi allontanare per continuare con convinzione a calcare le scene dove il destino lo avesse condotto. Tornata nell'angusta prigione della sua stanza, dopo aver scritto una lettera a Totò si tolse la vita ingerendo un flacone di sonniferi. Dal 4 marzo 1930 Liliana Castagnola riposa nella tomba dei principi De Curtis, vicino al suo Totò nella cappella di famiglia, come un membro della famiglia, come sarebbe stato se lui si fosse davvero fidato di lei, le avrebbe concesso l'eternità non avendole concesso i giorni della sua vita. Era il 1935 quando una canzonetta raccontava all'Italia il sogno di poter guadagnare mille lire al mese, è il 1931 quando Antonio De Curtis incontra Diana Bandini Rogliani Lucchesini a Firenze e guadagna mille lire a sera. Fino a quel giorno un dolore chiuso e schietto lo teneva prigioniero dei sensi colpa e del vuoto lasciato dalla morte di Lilia (come Totò era solito chiamare La Castagnola quando intendeva imprimere un tono d'intimità alle sue parole), avvenuto appena un anno prima. Era un rito per Totò arrivare in teatro molto presto e chiudersi in camerino: amava leggere, dormicchiare sull'immancabile divano, ripassare la parte che puntualmente avrebbe stravolto, e solo in ultimo con un gesto deciso della mano tracciare con una matita nera sotto gli occhi due righe dritte e tramutarsi cosi da Antonio in Totò. Chi lo conosceva in privato sapeva bene quanto non ridesse, non facesse battute, non gli piacesse il rumore e non si sapeva proprio spiegare come fosse possibile che dai 5 minuti chiamati dal “butta dentro che gli annunciavano per il suo ingresso in scena lui divenisse il funambolo dei sipari, il mimo disarticolato e buffo delle scene, l'idolo del pubblico che fremeva aspettando il suo ingresso. Fu una di quelle sere che un attore di prosa andò a vedere a teatro Totò, conducendo con lui la moglie e la giovane cognata non ancora sedicenne. Diana dirà di non averlo trovato “brutto ma buffo perché la sua faccia si componeva di pezzi belli, messi insieme in maniera bizzarra, ma soprattutto di due occhi grandi e malinconici”.

Diana era nata in Libia ed era orfana di padre e la madre secondo il costume dell'epoca aveva stimato che il modo migliore di impartirle una buona educazione fosse quello di chiuderla in collegio. Era infatti Diana in vacanza durante le vacanze estive presso la sorella quando venne condotta in teatro a vedere quel nuovo comico napoletano che riscuoteva tanto successo e che subito veniva avvinto dalla fresca bellezza di una fanciulla non ancora maggiorenne ed ancor più viene sorpreso dalla straordinaria somiglianza che quella fanciulla ha con il volto femminile di una pubblicità molto in voga all'epoca e che era solito guardare trasognato, gli sembra un segno del destino e non ha incertezze. Le vacanze estive erano in procinto di concludersi e Diana non sopportava l'idea di lasciare Totò ed i mazzi di fiori che ormai le mandava quasi quotidianamente e così scappò per raggiungerlo. Totò non si scompose nel vederla arrivare con un leggero bagaglio fatto alla svelta per non destare sospetti ed ai carabinieri spiegò che non si trattava di un rapimento, ma di sua moglie. Iniziarono una vita randagia di teatro in teatro, in cui Diana veniva anche chiusa a casa perché la gelosia accecava Totò, ma Diana è teneramente innamorata e lo segue ovunque ed accondiscende alle sue stranezze pur di renderlo felice. La gelosia per dirla tutta fu uno dei tratti determinanti della vita di Totò. Infilava bigliettini nello stipite della porta per verificare che Diana non ne uscisse mentre lui era in scena, se aveva vestiti particolarmente vistosi le permetteva indossarli solo in casa, metteva borotalco sulla soglia di casa per controllare al suo ritorno che non fosse entrato nessuno. Fu tra un teatro e l'altro tra una bizzarria e l'altra nel 1931 mentre recitava all'Eliseo di Roma, che sgattaiolò fuori dai panni di Totò per recarsi trafelato e commosso a conoscere il vero amore della sua vita: sua figlia Liliana, che volle chiamare così in onore della donna che per il suo amore si era uccisa in a sorta di vagheggiata nemesi.

Liliana nasce all'Hotel Ginevra in via della Vite in una stanza che Totò aveva fatto apprestare appositamente perché non trovava decoroso ed igienico che si nascesse in un ospedale dove la gente va e viene e ne succedono di tutte. Tra padre e figlia nasceva un amore che travalicherà l'amor filiale, ma somiglia più alla devozione di cui solo i grandi uomini sono capaci per gli amori che sanno puri e rari. Donerà alla figliola ogni benessere e la cura come il suo tesoro più grande, con precettori privati, in casa affinché nessuno possa importunarla, lei cresce in una spiazzante somiglianza con il volto paterno e ne eredita lo humor e la generosità di cuore, caratteristiche che si ripetono genetiche nelle generazioni a venire, fino ai giorni nostri. É la sublimazione dell'istinto di vita, un clamoroso successo ormai lo avvolge, una donna che lo idolatra l’ha reso padre di una principessina ed il riconoscimento genitoriale da quel Marchese che tanto lo aborriva è ormai solo un ricordo, Totò decide di coronare la sua unione prendendo in sposa Diana il 6 marzo 1935 nella Chiesa di San Lorenzo in Lucina. La vita si sa è beffarda e proprio in una sorta di ridda con le fortune umane sembra voler dispensare tanto bene per quanta sciagura nella vita degli uomini.

É nel fluire tranquillo di una delle tante sere famigliari che Totò propone a Diana di separarsi per verificare che la loro unione sia basata sulla volontà di stare con lui e non da un vincolo ufficiale. Fu L'inizio di un nuovo capitolo della sua vita. Totò riacquisiva la totale libertà d'azione mentre Diana avrebbe potuto pensare ad una vita propria solo dopo che Liliana si fosse sposata. Convissero nella stessa casa per più di dieci anni, ma il dispiacere per le trovate di Totò rodevano il cuore e l'animo di Diana. Liliana intanto fioriva in una bella donna di cui ne aveva gli slanci, i capricci e le pretese. Fu dapprima iscritta all'Assunzione uno dei migliori istituti della capitale, ma a seguito delle sue lamentele che derivavano dalla loro lontananza, Totò propose a Diana di tornare a casa a vivere con lui, ma non come sua moglie bensì come madre di Liliana, l'avrebbe cresciuta colta e proba fino al giorno in cui fosse uscita sposa dalla sua casa, solo a quel punto anche Diana avrebbe potuto pensare a ricostruirsi una vita con il benestare di Totò. Andarono avanti per anni come se fossero una famiglia tra gli alti ed i bassi legati forse ancora in fondo da un invincibile bene. La moglie era ormai consapevole dei ragionamenti contorti del marito che era sdoppiato tra sentimenti contrastanti. Se da un lato isolava e controllava le due donne dall'altro ne divorziava ma chiedeva loro di scusarlo. Liliana ancora oggi afferma quanto il padre volesse essere perdonato, delle continue e sempre più bizzarre conferme del loro amore che pretendeva, del suo tenerle nascoste come si fa con i tesori in un tentativo estremo ed inconsapevole di proteggerle da tutto, dal mondo dalla vita, dagli affetti sbagliati, come avrà a dire la figlia negli anni dell'età matura “Mio padre voleva il perdono”. Diana gli rimase a lungo vicina come la migliore delle mogli. Nel 1940 al rientro da Massaua appena prima dell'ingresso in guerra dell'Italia aveva accusato un forte disturbo all'occhio sinistro con successivo distacco della retina. Operato d'urgenza e bendato tutto il periodo della convalescenza Diana gli tenne la mano e gli fu vicino giorno e notte accudendolo con amore e dedizione. Fu di nuovo la gelosia a scrivere l'ultimo capitolo della sua vita con la moglie. Vedendo che si era assopito Diana si allontanò un attimo lasciandogli la mano e lui per controllare dove fosse non fidandosi si strappò le bende compromettendo il risultato dell'operazione. Diana stanca dalle continue scenate di gelosia e dalla mancanza di fiducia decise a tal punto di non disdegnare la corte dell'avvocato Tufaroli e con un anticipo di qualche mese, ruppe la promessa fatta di restare vestale del focolare domestico finché Liliana non si fosse sposata. Totò non glielo perdonò mai.

Totò era fatto di commoventi slanci umani, ma anche di invincibili convincimenti e radicate paure.

“Le lacrime sono, per un comico, quello che la Rolls Royce è per un povero: un lusso che non ci si può permettere" diceva Totò che però bene conosceva il peso delle lacrime specie di quelle non versate. Non riuscì mai ad essere insensibile al dolore degli altri. La sofferenza attivava in lui una generosità senza dubbi o incertezze. Sosteneva ospizi, orfanotrofi, infilava nottetempo banconote sotto le porte dei bassi accompagnato solo dall'autista Caffiero, inviava rette mensili ad uno sciuscià di Napoli che ormai lo considerava come la sua rendita. Nel 1922 il destino volle che rincontrasse la vecchina che quindici anni prima gli aveva regalato le caldarroste nei giorni in cui la povertà gli toglieva il cibo di bocca, la donna non lo riconobbe, ma lui ne aveva un indelebile ricordo e le lasciò una bella somma di denaro. Un'altra volta a metà degli anni Cinquanta passeggiando sul lungomare di Santa Marinella vide dei bambini poverissimi mezzi nudi ed infreddoliti. Si avvicinò loro e gli regalò l'equivalente di oggi di cinquanta mila lire, commuovendosi per quella scena che indubbiamente doveva avergli ricordato sé stesso a Napoli molte decadi prima. Totò nutrì per tutta la vita una vera passione per gli animali ed in particolar modo per i cani, che vedeva come bambini teneri ed indifesi che in più non potevano nemmeno lamentarsi.

Nella sua casa vivevano riveriti il cane Peppe che era stato nominato Visconte, il pappagallo Gennaro che era Barone ed era libero di svolazzare per ogni stanza. In Totò convivevano senza contrasto, ma con evidente distacco due sé, da una parte lo scugnizzo povero dell'infanzia dall'altra il nobile benestante, la cesura netta tra miseria e nobiltà. Tornato a casa Antonio si spogliava degli abiti di Totò e si vestiva di un'eleganza curata sempre nei minimi particolari per produrre un risultato elegante e serioso distante dalla maschera farsesca che indossava in teatro. Da buon napoletano era superstizioso e viveva in una dimensione in cui cose e numeri avevano una loro valenza. Odiava i numeri 13 e 17 e non accettava né camere d'albergo, né posti riservati in treno o altro che avessero quei numeri. Stava alla larga da quelli che riteneva jettatori e non prendeva mai decisioni né di martedì né di venerdì. Estremo nella capacità di amare, di donare, di credere ed ottenere, ma anche di smisurata gelosia e dedito ad irrinunciabili abitudini come il fumo ed i caffè che lederanno il suo immenso cuore nonostante la sua grande vitalità.

Fu una felice combinazione che fosse un personaggio pubblico e di spettacolo e non si confacesse al suo ruolo di rendere pubbliche le sue inclinazioni politiche, giacché di chiare non ne aveva. Consapevole com'era che la soluzione ai mali di ciascuno non poteva certo provenire da un partito politico piuttosto che da un altro, dal momento che nessuno ne possedeva la soluzione. Le afflizioni umane, le fatica, la mancanza di lavoro, di dignità ed affetto erano insite nella natura e tanto inevitabili come la pioggia o le tempeste e la sola cosa che si potesse fare era affaccendarsi, darsi da fare per risolvere come si poteva. Totò spogliava la politica dei suoi assiomi della lotta partitica e di classe come poteva del resto lui stesso divenuto principe ma nato nei fondi di Napoli avere un'univoca vocazione?!Men che meno si addiceva alla sua innata indolenza l'idea della militanza in un partito, ed al suo progetto di epicureo godimento della vita lontano dagli urti della vita. È storicamente compito del buffone di corte però satireggiare il potere, unico ruolo ad avere la licenza di farlo, e così anche Totò nonostante i tempi fossero tutt'altro che ispirati dall'ironia, ebbe di pari tempo l'ardire ed il coraggio di schernire Mussolini durante l'occupazione tedesca e lo stesso Hitler in una scenetta che riecheggiava quelle del Grande Dittatore di Chaplin.

Erano gli anni delle camicie nere della censura e dei balilla e Totò non aveva mai avuto idee chiare in fatto di politica. Simpatizzava di certo per la monarchia per il conservatorismo, ma non fu di certo un fascista. Era innata in lui la propensione ad osservare le piccole manie, i vizi dei passanti o di estranei che si divertiva a seguire per spiarne le movenze, le peculiarità, era impossibile dunque che non fosse attratto da personaggi caratterizzati e caratterizzanti come Hitler o Mussolini si sarebbe quasi potuto credere che non fossero un dileggio, ma licenza artistica certi riferimenti non troppo vaghi ai due dittatori durante gli spettacoli, che tanto piacevano al pubblico. Nulla di certo comprova le sue propensioni dell'epoca giacché non essendo affatto solito seguire i copioni non c'è prova scritta del suo ironico e spassoso scimmiottare il potere. Il 20 luglio come tutti i romani Totò con la famiglia trascorse la notte in strada, insieme agli abitanti del suo rione, San Lorenzo era stato bombardato e nessuno sapeva se presto o tardi sarebbe toccato ad un altro quartiere. Il giorno successivo dopo essersi consultato con il suo amico e capocomico Michele Epifani decise di riparare presso una casa a Valmontone, nonostante i genitori si opponessero ed avessero deciso di restare barricati in casa, Totò pensò di portare al sicuro moglie e figlia. Il caso volle però che vicino al loro alloggio ci fosse una polveriera e che a Liliana poco dopo il loro arrivo scoppiasse un gran febbrone. Fu definitivamente chiaro che quello era il posto meno sicuro in cui restare quando un bombardamento colpì proprio le vicinanze di Valmontone. Avvolgere Liliana in una coperta, prendere Diana per mano e fuggire fuori fu istantaneo. I colpi di una mitragliatrice contraerea strepitarono poco lontano da loro e con prontezza di spirito Totò fece scudo con il suo corpo alla piccola Liliana. Le giornate scorrevano tranquille come poteva essere in tempo di guerra. Erano trascorsi pochi giorni dall'attentato di Hitler che era stato sventato e Totò si presentò in scena con dei ridicoli baffetti tra l'ilarità della folla. Era stato superato il segno.

Era appena tornato a casa, quando squillò il telefono ed una voce anonima gli disse che era in partenza a suo nome un telegramma di convocazione al comando di polizia ed era già stato firmato un ordine di cattura per lui, Eduardo e Peppino De Filippo. Totò abbassò la cornetta e trafelato si precipitò per le vie di Roma per raggiungere il teatro Eliseo dove i fratelli De Fillipo mettevano in scena il Berretto a Sonagli di Pirandello, per avvisarli che c'erano anche loro tra i nomi designati dalle autorità tedesche per essere deportati. Totò riparò al sicuro dell'amicizia di due sue ammiratori e poi assidui frequentatori dei suoi spettacoli i coniugi De Sanctis, sulla Via Aurelia all'estrema periferia di Roma. Tutto scorse per qualche tempo, con allegra convivialità fin quando una piccola folla radunatasi fuori dall'abitazione di via del Gelsomino che li ospitava rese palese che il loro nascondiglio non era più tale e rendeva necessario un nuovo spostamento. Totò decise di tornare a casa propria dove trovò i genitori che ancora una volta avevano deciso di non spostarsi. Si trincerò in casa e lì rimase fino al 4 giugno, giorno della liberazione di Roma.

Dopo il duplice matrimonio di Diana con Tufaroli e di Liliana con Buffardi Totò chiuse per qualche tempo i rapporti con entrambe e si ritirò in un invincibile scudo di malinconia dal quale uscì come per incanto solo nel 1952 per un incontro fortuito con Franca Faldini, la compagna che gli sarà accanto per gli ultimi 15 anni della sua vita. Nel 1937 Totò era ancora un illustre sconosciuto se non a coloro che frequentavano il teatro. Possiamo supporre che Ludovico Bragaglia volesse creare uno Charlot italiano e su questo seguire la scia del successo che l'attore riscuoteva. Chi dunque meglio di Totò poteva far riecheggiare il più illustre?!Avevano da sempre una grande ammirazione per Totò, da quando ancora era nell'avanspettacolo e già sapevano che sarebbe diventato qualcuno. Aveva la passione di far fare un film a Totò, ma la difficoltà era di imporre un attore di avanspettacolo a un produttore, poi arrivò Gustavo Lombardo.

Dal 1937 al 1967 Totò interpreta 97 film. Antonio ha una creatività eruttiva, non passa notte insonne, o pausa caffè, che non scriva su qualche pacchetto di sigarette una canzone, o su un tovagliolo due frasi di una poesia o che non registrasse sul magnetofono una melodia fischiettata che gli veniva in mente, o ancora si ritirasse in silenzio nel suo pensatoio, nella sua stanza delle riflessioni dove solo lui era ammesso per annotare pensieri e poesie.

Vive il lui imperante la paura che l'affetto del pubblico possa finire dietro un capriccio e questo lo spinge a lavorare instancabilmente. Prima del suo film d'esordio “Fermo con le mani” del 1937 erano stati fatti già piccoli tentativi di portarlo sul grande schermo. La Sasp (Società Autonoma Stefano Pittalunga) che all'epoca produceva tutti i film italiani lo convoca negli studi della Cines per un provino, per un film intitolato “Il ladro disgraziato”. Il progetto sfuma, ma Pittalunga decide d'inserire il provino ugualmente nel cinegiornale della Cines n°4, un'apparizione di pochi secondi che è ad oggi la più antica apparizione cinematografica di Totò. Come spesso succede fu il fato ancora una volta a determinare un incontro decisivo per la vita e la carriera di Totò. A cena con amici in un ristorante romano notò che un signore lo guardava con insistenza e sulle prime un po' infastidito, dovette poi ricredersi, quando alla fine del pasto Totò ebbe già per le mani il contratto per “Fermo con le mani”, pellicola che se non lo avrebbe innalzato agli onori della gloria di certo servirà a farlo conoscere al grande pubblico.

Fu con “San Giovanni decollato”, che si consacrò per una volta agli onori della critica l'interpretazione di Totò. Sceneggiato per la maggior parte da un noto intellettuale dell'epoca, Cesare Zavattini, non fu solo un buon successo di pubblico, ma gli riservò il plauso di quegli intellettuali che invece lo osanneranno per lo più solo dopo la morte. Nel film interpreta un piccolo cammeo anche l'amatissima figlia Diana ed è d'infinita tenerezza lo sguardo del padre sulla figlioletta che lavora con lui per la prima ed ultima volta (Liliana riceverà come compenso una bambola).

Totò ammira Petrolini, ma il primo è fatto tutto di mimica di visività l'altro tutto di dialogo.

L'incontro con la Magnani che era già l'attrice sentimentale e terrestre sboccata e formata che tutti conosciamo si concilia bene con la maschera di Totò che l'affianca senza perdere la propria individualità. Galdieri è pervaso di generico moralismo e valenze piccolo borghesi, così se ha l'effetto di radicare più i personaggi nel contesto storico, accade anche che la comicità non sia più immediata e fruibile, ma satira politica, solo il solito candore che contraddistingue Totò infila il suo personaggio nelle dinamiche dell'ambiente borghese senza falsi moralismi ed evita di diventare noioso, concedendo d'altro canto a Totò la possibilità di fare satira sociale e sovvertire e sbeffeggiare l'ideologia vigente già in crisi. Fu poi la volta di Eduardo De Filippo, Totò penderà parte al suo film Napoli milionaria, senza compenso, in segno dell'affettuosa amicizia che lo legava ad Eduardo. Tra il 1949 e il 1950, oltre a Napoli milionaria, interpretò ben altri nove film, tra i quali alcune parodie: Totò cerca moglie , Figaro qua, Figaro là, Le sei mogli di Barbablù, 47 morto che parla, tutti diretti da Carlo Ludovico Bragaglia, poi L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, Tototarzan e Totò le Mokò di Mario Mattoli, Yvonne la nuit di Giuseppe Amato, Totò cerca casa di Steno e Mario Monicelli, un'efficace parodia del neorealismo sulla crisi degli alloggi, che suscitò un po' d'indignazione da parte della censura. Questi film (quale più quale meno) ebbero un buon successo di pubblico, ma non di critica, che già dalle pellicole precedenti cominciò a non gradire lo stile surreale di Totò. Per tutta la sua carriera teatrale prima e cinematografica poi Totò rimarrà fedele a quel sentimento di rivolta proprio del sottoproletariato che unito combatte per la vita, senza mai neanche idealmente identificarsi con il ceto borghese. Un'invincibile libertà d'espressione che sovverte i patimenti del ceto più povero e avvinto dai sacrifici con Totò stravince, con furbi stratagemmi ed ilarità sovverte le regole, in realtà è satira che emerge dal reale, dall'osservazione dei tipi umani, dalle scene vissute e nel linguaggio non è inventato, ma derivazione del concreto. Il più reale concentrato di quel che nasce e vive da Antonio De Curtis è simboleggiato dalla sua bombetta come il cilindro d'un mago che crea Totò. Due righe di matita sotto gli occhi, un laccio di scarpe per cravatta e si materializza il personaggio che sempre con garbo ed educazione, ma con intelligenza e scaltrezza si emancipa dall'ingiustizia sociale.

È la vittoria della spinta vitale sul quotidiano perennemente ostile. La spinta recitativa di Totò è tutta reale e per nulla concettuale, a teatro parlerà sempre in napoletano, nei suoi scritti, nei temi che davvero gli stanno a cuore: l'amore, la solitudine rimane l'uso voluto e scelto della sua lingua natale che aggiunge afflato e personalizza il significante e lo rende graficamente e foneticamente privato, al cinema appartiene la lingua italiana, del principe e delle masse. Tovaglioli, bigliettini da visita, scatole di cerini, tutto diventa sotto le mani di Antonio mezzo di comunicazione.

Bisogna aver sofferto, conosciuto il dolore e la tristezza per far ridere ed al cinema a Totò manca l'abbraccio del pubblico, la reattività della platea, lo sguardo della dama prescelta di sera in sera per cui esibirsi ed inventare nuove trovate, tanto che si rende necessario perché il vero “rire” fluisca dalle sue vene che la troupe alla fine di una scena lo applaudisca per farlo sentire a suo agio, e farlo lavorare al meglio. Il microfono, la video camera lo mettono a disagio finge di non vederle continua ad improvvisare come sulla scena. Negli anni del solo cinema gli manca l'odore delle tavole del teatro dei camerini, ma il cinema fa guadagnare di più e più velocemente.

Ripetere le scene era una cosa nuova, a teatro non cera la possibilità di ripetersi, e forte della convinzione che di mattina non si può far ridere” per contratto recitava solo tra le 13:00 e le 21:00.

I film di Totò vendono tanto e costano poco, lui diventa una garanzia di successo per i produttori lavora instancabilmente così accetta un po' di tutto, anche se in lui c'è il fervente desiderio di cimentarsi in film non comici. Ad un certo punto la marionetta ingoia quasi il Principe che deve sottostare allo strapotere del suo personaggio che lo ingabbia per lo più nella figura dell'attor faceto. Antonio De Curtis è l'uomo del pensatoio che ama gli angoli della sua solitudine, che scrive giorno e notte, che compone, che si duole di vendere solo parole che si sente in fondo forse vittima seppur artefice di un personaggio da lui creato. Il 1951 fu un anno importante per la carriera cinematografica dell'attore. Dopo il successo di Totò cerca casa, venne richiamato da Steno e Mario Monicelli per interpretare il ruolo del ladro Ferdinando Esposito in Guardie e ladri, al fianco di quell'attore che fu uno dei suoi amici più affezionati e una delle sue migliori "spalle", capace di rispondere colpo su colpo alle improvvise e “aggressive” battute di Totò, Aldo Fabrizi. Totò era all'inizio riluttante, il ruolo offertogli era finalmente reale, diverso dai suoi precedenti personaggi e inserito in un contesto decisamente più drammatico. Il film ebbe inizialmente problemi con la censura, ma appena uscito nelle sale fu un successo unanime: alti incassi, grande apprezzamento di pubblico e plauso inatteso da parte della critica. Nello stesso anno interpretò, sempre per la regia di Monicelli e Steno, Totò e i re di Roma, l'unico film che lo vide recitare con Alberto Sordi.

Nel 1952 fu premiato con un nastro d’argento per la sua interpretazione in Guardie e ladri. L'opera venne presentata al Festival di Cannes, dove si aggiudicò il premio per la migliore sceneggiatura, è questo anche l'anno in cui l'attore collaborò a “Siamo uomini o caporali?” la sua autobiografia curata da Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli che si ferma alla morte di Liliana Castagnola. Fosse per lui interpreterebbe solo personaggi umani come in guardia e ladri, diverrà presto buon amico di Pasolini che riempendo il gap sociale e generazionale lo abbraccia e lo fa recitare nei suoi film più intellettuali. Antonio accoglie nella rigida dimora dei suoi usi, delle tovaglie di fiandra e delle stanze silenti l'intellettuale omosessuale che però sa scorgere l'attore dietro al personaggio e gli regala finalmente un nuovo ruolo ed è come se venisse riscoperto per la prima volta, purtroppo davvero tardi. Abbiamo perso molto dell'attore introspettivo e colto che sarebbe stato, ma nel binarismo che lo caratterizza dalla nascita che (nasce nel quartiere più popolare di Napoli ma in un edificio nobiliare) trova l'unica via di conciliare l'atomo di carbonio del suo essere basso che genera la caratura del principe e dell'uomo che si ritira per scrivere e comporre i suoi turbamenti. Per chiunque sarebbe stato problematico conciliare la duplicità della sua personalità, ma lui invece lo rende elemento caratterizzante ed addirittura nello scrivere usa una grafia per la brutta copia ed una per i documenti nella redazione definitiva.

Pasolini aveva studiato Totò ne aveva comprese le origini sottoproletarie e la sua superba capacità di elevare la tradizione popolare da cui veniva fino a diventare surreale ed astratto come nessun altro attore borghese sapeva fare.

Sulla marionetta ormai famosissima Pasolini fece opera di sottrazione, tolse l'irriverenza, lo sberleffo ed il desiderio di rivalsa, ne rimase un tenero ed indifeso pieno di dolcezza Totò. La prima opera realizzata insieme fu Uccellacci e uccellini, che Totò accettò senza condividere appieno il suo personaggio e la poetica del regista; ormai il suo intento principale era produrre opere di qualità e di Pasolini si fidava. Quando uscì Uccellacci Uccellini fu come se la critica lo scoprisse per la prima volta ed effettivamente fu una delle rare occasioni in cui gli venne riconosciuto in vita un reale valore artistico. Antonio non pensò neanche per un momento che fosse la critica ad aver sempre sbagliato ma che piuttosto avesse sprecato i suoi anni in film mediocri ed il tempo per concludere qualcosa di buono fosse finito. “Un falegname ha fatto certo più di me, almeno una sedia rimane nel tempo, io vendo solo parole”. Furono le sue ultime pellicole. Venne chiamato anche da Nanni Loy per Il padre di famiglia, di nuovo con Manfredi, in un ruolo di un anziano anarchico che vive vendendo calzini e mutande ai compagni della sinistra; film destinato a collocarsi fra i tanti progetti non realizzati da Totò, poiché girò la prima scena (per spiacevole casualità, quella d'un funerale) e morì due giorni dopo. Il cinema specialmente in vita non darà a Totò le soddisfazioni che gli ha regalato il teatro, ma gli ha permesso d'interrompere il suo perenne peregrinare, di vivere nella sua bella casa ai Parioli, svegliarsi a suo piacimento. Di stancarsi di meno, ma senza il calore e la gioia che gli restituiva il contatto con il pubblico e lo aveva portato dov'era. Dopo il duplice matrimonio di Diana con Tufaroli e di Liliana con Buffardi Totò chiuse per qualche tempo i rapporti con entrambe e si trincerò in un invincibile scudo di malinconia. Fu la rivista d'un settimanale a mettergli davanti una ragazza di vent'uno anni, diversa in tutto da lui: l'una cosmopolita e di ritorno dagli Stati uniti, l'altro così legato alla sua quotidianità un nobile routinario e trentatré anni a dividerli. Si rimarranno accanto per quindici anni di amore e rispetto reciproco. Le mandò subito un mazzo di rose con un biglietto: «Guardandola sulla copertina di “Oggi” mi sono sentito sbottare in cuore la primavera», poi le telefonò per invitarla a cena, la ragazza accettò solo quando Totò ebbe modo di farsi presentare. La Faldini, appena ventunenne, era da poco tornata dagli Stati Uniti, dove aveva preso parte al film Attente ai marinai! con Dean Martin e Jerry Lewis.

Dopo essersi frequentati per circa un mese annunciarono il loro fidanzamento. Sebbene restassero insieme fino alla morte dell'artista, la loro relazione, che non arrivò mai al matrimonio, fu più volte sull'orlo di essere troncata, per il fatto di essere due persone caratterialmente molto diverse; un motivo, tra l'altro, fu la differenza di età. La situazione di convivenza senza un legame matrimoniale creò scandalo all'epoca, tanto che, pochi anni più avanti, i due, stanchi di essere tormentati dai paparazzi e dai giornalisti (che li definivano "pubblici concubini", furono costretti a fingere di essersi uniti in matrimonio all'estero, un espediente che comunque non funzionò completamente. Il successo gli arrideva e l'amata Franca era in attesa di un bambino. Antonio si sentiva proiettato nel futuro e l'idea di diventare padre all'età di 56 anni anziché preoccuparlo gli dava forza ed entusiasmo. L'avrebbero chiamato Massenzio se fosse stato maschio. La vita ordiva però, ancora una dura sorpresa per Antonio. Franca era all'ottavo mese di gravidanza e nulla lasciava presagire il triste epilogo della vicenda. Una sera mentre erano seduti sul divano del salotto ed il proiettore proponeva per loro City Light di Chaplin Franca accusò dei dolori lancinanti al ventre, Antonio si precipitò a chiamare il padre che accorse alla clinica Quisisana, la più vicina alla casa dei futuri genitori, dove era stata trasportata Franca in tutta fretta. Il dott. Galeazzi medico di famiglia ed amico di Totò non si era reso conto delle condizioni di Franca ed avrebbe potuto salvare il bambino se avesse prestato maggiore attenzione ai livelli di albumina della Faldini durante la gravidanza. Intanto era giunto il prof. Bruno che diagnosticò una tossicosi gravidica con albuminuria. Antonio attendeva angosciato e trepidante nella sala d'aspetto e fu posto davanti ad una terribile scelta, se ad essere salvato dovesse essere il bambino o la madre. “Professore salvate Franca, questo è quello che voglio rispose distrutto Antonio, e così fu. Nel 1956 Totò aveva praticamente tutto: una compagna che l'amava, due nipotini che gironzolavano per casa, è ricercato dai produttori e amato dal pubblico. Tra la possibilità di fare ancora cinema e soldi vince la nostalgia e Totò torna sulle scene ed accetta di esibirsi al Sistina con l'impresario Remigio Paone nello spettacolo “A prescindere” che registra solo tutto esaurito per intere settimane di programmazione. All'insaputa di Totò il destino gli stava preparando un altro scalino. Fu proprio durante le repliche di “A prescindere” che tornò in albergo con un gran febbrone: polmonite virale. Avrebbe dovuto restare a letto alcuni giorni, ma tutta la compagnia era ferma e Totò sapeva bene cosa volesse dire per un piccolo attore non recitare e non guadagnare, incalzato da tutti, solo Franca lo pregava di riguardarsi, ed alla fine Totò si lasciò imbottire di antibiotici ed andò comunque in teatro. Era dietro le quinte ad aspettare di andare in scena quando dovette chiedere una sedia ed il suo fisico cedette. I biglietti furono rimborsati alla folla vociante ed a Totò furono intimati 15 giorni di riposo assoluto. Durante la notte non gli riuscì di dormire, pensava a tutti coloro che avrebbero visto sfumare il lavoro se la tournée fosse saltata, così il mattino dopo, di nuovo chiamò Paone e comunicò che: riprendeva lo spettacolo. Portò a termine le recite a Milano e così nelle altre città finché una sera durante una cena in cui avevano festeggiato il matrimonio di due ballerini a cui Totò aveva regalato una 500 “affinché li trasportasse insieme per il resto della vita”, vide ballare le pareti ed i tavoli, gli venne detto che era l'indebolimento dell'organismo a causa dell'uso massiccio degli antibiotici, ma con il passare dei giorni il disturbo crebbe e comparvero macchie sui muri. La tragedia si concluse sul palcoscenico del Politeama di Palermo, la figlia Liliana lo aspettava dietro le quinte e dopo lo sketch di Napoleone, Totò uscendo dalla scena disse alla figlia che gli tendeva la mano: “Sono cieco, non ci vedo più”. Totò rientrò in scena e nessuno si accorse dell'accaduto tagliando le scene, scaricando la tensione in una mimica selvaggia che fece andare in delirio il pubblico. Uscì più volte anche a ringraziare la platea, il loggione illuminato a giorno ma che lui non vedeva più. Fece la passerella di corsa trotterellando, sulla passerella con tutta la compagnia dietro che seguiva, sapeva e tremava. Uscì dalla scena e le recite furono sospese per sempre. Dovette persino sopportare la visita fiscale inviatagli da parte da Paone o dal direttore del teatro che pare non credessero alla sua cecità. “Due righe nere sotto gli occhi, due tocchi di cerone e un po' di rosso sul naso e sulle gote” gesti che aveva ripetuto migliaia di volte e che ora non gli riuscivano più. A Napoli dal dottor Lo Cascio si seppe di cosa si trattava. Un occhio era stato compromesso anni prima del distacco della retina, nell'altro erano intervenute decine di piccole emorragie, ed infine una centrale che gli impediva di vedere. Fu forte Totò come solo sanno essere coloro che hanno dovuto contare solo su stessi ed affrontare con slancio ostacoli per altri inimmaginabili: si adattò alla nuova situazione e riprese a lavorare. Gli avevano detto che quel po' di vista che aveva recuperato gli sarebbe rimasto e così per non sentirsi un uomo ferito e per farsi carico delle richieste sempre più pressanti della famiglia, di cui si era sempre fatto carico non si fermò mai. Al rientro a casa pianse quando non poté vedere Gennaro il pappagallo cavaliere che gli volava incontro dal trespolo.

Era la primavera del 1967, l'Italia del governo di Aldo Moro e del boom economico, del turismo che si implementava ammaliato dall'arte e dalla storia del nostro paese ed i romani si preparavano ad un'altra tranquilla serata davanti alla tv. Il fedele Caffiero entrò nella sua stanza per fargli ascoltare la registrazione della Livella che aveva tanto atteso, ma trovò un Antonio stanco ed affaticato sprofondato sulla poltrona. Accusava disturbi gastrici tanto che Franca Faldini chiamò Liliana per dirle che suo padre non stava bene, poi chiamò la produzione per comunicare che quel giorno Totò non si sarebbe recato sul set. Totò intanto si era rasato come sua abitudine ed il dott. Cusumano l'aveva appena visitato, quando Liliana arrivò da lui le fu detto che si trattava solo di qualche noia intestinale, ma nulla di preoccupante.

Totò aveva iniziato a fumare quando era adolescente e non aveva più smesso anzi nei momenti più delicati, in cui i medici gli consigliavano di smettere lui aveva continuato a fumare senza interruzione anche sessanta sigarette Turmac al giorno a cui accostava una quindicina di caffè al giorno ed a cui non volle mai rinunciare.

Il resto della giornata trascorse tranquillo per Totò al riposo nella penombra della sua stanza. Giunse anche il responso delle analisi in cui tutto sembrava in ordine con gran sollievo di tutti e Totò stesso tornò di buon umore. Intorno alle sette e mezza otto Franca Faldini gli stava imboccando un po' di cena per non farlo affaticare, quando lanciò un urlo straziante. La Faldini aveva perso nella stessa maniera il padre poco tempo prima, così comprese subito cosa stesse accadendo, sudore e pallore, il cuore stava cedendo. Fu convocato immediatamente il dott. Cusumano e richiamata Liliana che rasserenata si era allontanata. Era il primo di una serie di infarti che si susseguirono accompagnati da lancinanti dolori e da grida. Caffiero fu mandato in tutta fretta all'ospedale Santo Spirito a procurare dell'ossigeno mentre il cardiologo si affaccendava tra iniezioni e flebo. Intorno alle 23:00 Totò riuscì a fare un cenno a Franca perché si avvicinasse per dirle: “Sono stato bene assai con te Ravachol”. Verso le due e mezza Totò sembrò tornare lucido e resosi conto che la fine era vicina si strappò dal viso la maschera dell'ossigeno, gli elettrodi e la flebo, verso le tre e mezza il suo cuore cedette definitivamente e spirò. Venne convocato il parroco della Chiesa S.Eugenio alle Belle Arti che appena giunto intimò a Franca Faldini di uscire sul pianerottolo dalla casa in cui erano concubini, si trattenne con la salma giusto il tempo di benedirla cosa per i tempi neanche così scontata giacché si trattava di un pubblico peccatore. A Liliana che sconvolta fu condotta a casa venne prescritto un calmante mentre Franca nella camera egli ospiti riposò fino alle nove e trenta quando giunsero Diana Liliana ed il marito Gianni Buffardi. La nera signora come Totò chiamava la morte non l'aveva mai preoccupato, lo preoccupava piuttosto invecchiare. Con i primi risparmi aveva. comprato una cappella per se e per la sua famiglia con una targa che riportava solo la sua data di nascita ed in bianco quella di morte. Capitava spesso che Totò provasse ad immaginare le sue esequie e ci ironizzasse sopra: sarebbero state belle assai piene di parole, di elogi, avrebbero scoperto che era stato un grande attore. Come al solito la preveggenza di Totò non sbagliava di molto per due giorni, il 15 ed il 16 la salma fu vegliata dalle principali personalità dello spettacolo, sfilarono a Via dei Monti Parioli 4 in silenzio e con commozione anche coloro che erano stati suoi detrattori in vita. Migliaia di romani, persone semplici mescolate a grandi attori ed intellettuali si avvicendarono in silenzio nel lungo corridoio che immetteva nella camera da letto, solo il vento dalla finestra aperta giungeva ad accarezzare dolcemente Totò che vestito nel suo abito da yachtman, una giacca blu e dei pantaloni di flanella chiari, nell'eleganza che lo aveva contraddistinto si accingeva davvero ad uscire di scena.

Il primo telegramma a giungere alla Faldini fu quello del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, Federico Fellini ricoverato dettò alla stampa un messaggio commovente, Pasolini che si trovava in Marocco per le riprese di Edipo Re disse che Totò: “Ci era stato rubato”, a rendergli omaggio tra i primi giunsero Franco Franchi e Ciccio in Grassia, Luigi Pavese, Alberto Sordi, Mario Mattoli, Steno, Mario Monicelli.

Solo grazie una provvidenziale intercessione il 17 aprile alle 11:20 nella Chiesa di Sant'Eugenio alle Belle Arti ebbe luogo una semplice cerimonia funebre, la benedizione della bara deposta in terra secondo l'uso riservato ai nobili sotto la statua di Papa Pacelli. La bara con la bombetta sopra fu portata a spalla dai tecnici di Cinecittà trafitti dal dolore. In rispetto alle volontà di Totò che aveva lasciato precise centoventimila lire in un cassetto per le sue esequie, vennero celebrate in assoluta umiltà e silenzio. Nella tarda mattina di quello stesso giorno il suo corpo venne trasportata a Napoli dove già all'uscita dall'autostrada lo aspettavano una folla silenziosa della più varia umanità: bambini vecchi donne, ricchi e poveri che lo aspettavano dalla mattina solo per inginocchiarsi e salutarlo al suo passaggio. Nella chiesa del Carmine maggiore davanti al mare venne celebrata la cerimonia mentre nella piazzetta, nei vicoli adiacenti, nei quartieri intorno la gente di Napoli si radunava, la sua gente anche se non poteva vederlo sapeva che lì c'era Totò e loro lì per accompagnarlo. La prefettura di Napoli aveva ordinato quattro ore di blocco per consentire che la cerimonia si svolgesse con tranquillità. Il 17 aprile 1967 dalle scuole, dai luoghi di lavoro, si era radunata intorno alla chiesa del Carmine la rappresentanza dell'umana razza in un silenzio surreale senza distinzione di razza o ceto: gli atei come i credenti, i galantuomini come i guappi, gli studenti ed i professori, le celebrità e le casalinghe in un sospeso ed ammutolito dolore tacevano aspettando Totò, che aveva elevato a rappresentanza dei vizi e delle virtù umane la cultura napoletana di tutti loro lui era stato il rappresentante e l'eroe che gli aveva regalo l'illusione di potersi rivalere dei più forti o almeno di godere delle risa alle loro spalle .Non appena il carro funebre apparì spontaneo e roboante scaturì un applauso e un Nino Taranto commosso e provato disse: “Totò, Napoli t ha fatto l'ultimo esaurito”. La Chiesa era gremita fino all'inverosimile e fu così necessario far uscire il feretro dalla porta della sagrestia e caricarlo sul furgone che lo condusse al Cimitero del Pianto, dove il corpo venne inumato vicino a quello dei suoi genitori, di Massenzio e di Liliana Castagnola e dove tutt'oggi riposa.

“Non può finire accusì...Totò deve avere il funerale a casa sua. Vi farò avere l'invito, io sono Campoluongo. “Liliana racconta che durante la messa nella chiesa del Carmine un uomo di una certa età, un pezzo d'uomo bruno, avvolto in un cappotto nero le si era avvicinato e le aveva mostrato una foto insieme a Totò. Liliana si ricordava di lui, era detto Nase 'e can amico a quei tempi di tanti artisti napoletani da Eduardo De Filippo a De Sica e Nino Taranto, Totò gliene aveva parlato era un guappo come si usavano allora, si occupava di tenere” in ordine “il rione sanità, ne era per certi versi un sindaco auto eletto.

Cinquant'anni prima si erano conosciuti dopo che il comico aveva soffiato una ragazza ad un guappo ed alla fine erano divenuti amici. Dopo tre mesi cominciarono a circolare per Napoli cartoncini d'inviti ad un terzo funerale ed uno di questi giunse anche a Liliana e Diana insieme alla prenotazione in un grosso albergo di Napoli per la circostanza. Il rione Sanità doveva salutare Totò, dal suo ventre era nato e lui doveva accompagnarlo nell'ultimo viaggio, fosse anche solo idealmente. Tutti sapevano che il corpo del loro fratello riposava ormai al cimitero del Pianto, ma era il gesto in sé che importava.

Nase 'e can fece addobbare a lutto la chiesa di San Vincenzo a due passi dalla casa natale di Totò, ed insieme ai suoi uomini portò a spalla la bara vuota che fu deposta sotto l'altare dove venne officiata la funzione e benedetta la bara davanti ad un disperato Nino Taranto abbracciato da Liliana e Diana. Il feretro vuoto uscì dalla chiesa in un lungo applauso era la sua gente che lo salutava.

“Per la capacità che ha di farci ridere nonostante tutto meriterebbe di esser fatto santo” ebbe a dire Fellini. In un tempo che non conosce più la giusta misura di tutte le cose ed il buon senso, Totò continua a portare umanità, ottimismo e coraggio, vessillo di una napoletanità ricca di risorse che non scade mai nel becero dolore, persino quando la speranza occorre inventarsela. Totò è lo scacciapensieri non transeunte metastorico e trans-sociale che genera un irripetibile fenomeno di simpatia collettiva.

Ignorato o peggio dileggiato dalla saccenteria ideologica e stereotipata della critica, Totò sapeva che solo dopo la sua dipartita si sarebbero sprecati in paroloni e se ne andò con la mesta convinzione di non aver lasciato nulla che gli sarebbe sopravvissuto. Nella grande umiltà che lo contraddistingueva era solito dire che un monumento andava fatto piuttosto alla sua bombetta che tanto aveva contribuito al suo successo.

“Avere paura della morte è da fessi” diceva con il sorriso amaro che era di Antonio. La prima cosa che comprò con i primi guadagni fu proprio la cappella dove oggi riposa insieme ai suoi cari.

La tomba di Totò è ad oggi una delle più visitate d'Italia, a lui vengono indirizzati bigliettini che riempiono la sua tomba, che riportano fiduciose preghiere per risolvere i problemi dell'esistenza o chiedere favori, mani sconosciute portano fiori freschi di continuo. Speriamo possa vederlo che a mezzo secolo dalla sua scomparsa, nella seconda decade del nuovo secolo la sua grandezza non solo non è stata scalfita, ma cresce e vive in ognuno di noi, nei gesti nelle parole, nei motti che quotidianamente usiamo e che neanche sappiamo essere stati inventati dal suo geniale estro creativo per quanto ci sembrano perfettamente proprietà della nostra cultura.

Dobbiamo ringraziarlo perché ha creato qualcosa che continua a tenerci compagnia, ad insegnarci un educato ma ugualmente irriverente e geniale umorismo. Non fa mai demagogica pedagogia, ma catarsi sociale in un tempo arrancante ed affamato in cui la vita oggi, come allora si improvvisa. Non c'è giorno o generazione che non lo viva nei gesti, nelle parole, nei motti, nei film.

Il tempo è stato galantuomo con lui e non ha sbiadito la sua immagine e gli anni sono scorsi rapidi così che forte e vivida è la sua immagine in ognuno di noi.

Non si riesce a credere che Totò sia morto, forse proprio come diceva lui chi ha la ventura di essere personaggio vivo, può infischiarsene della morte perché non muore più. Ci piace pensare che se dovesse lui stesso concludere in merito all'argomento della sua dipartita risponderebbe a modo suo:

“Voi dite che sono morto? Perbacco, se lo avessi saputo sarei venuto vestito a Lutto!” (Due cuori tra le belve).